Mondadori
Milano
1968
Raffaele Crovi poeta partecipa al rinnovamento del linguaggio operato dalle nuove e nuovissime generazioni di poeti. La sua partecipazione avviene, tuttavia, non in obbedienza ad un diktat stilistico, ma sul terreno della discorsività gnomica e loica. Il suo discorso è animato da una sana febbre evangelica: documenta un itinerario morale aperto sull’ipotesi di nuove società in elaborazione, un esplicito rifiuto dell’autoritarismo, il rigetto di ogni etica formale e automatica, infine, una scelta di un segno religioso positivo, operante fuori da ogni tentazione contemplativa o apologetica. La sua storia personale, da forme inizialmente idilliche, di amore disadorno, di dolore come vizio, cresce e si carica di interrogativi e impegni sull’esperienza, concretandosi in un nuovo modo di identificazione che ha implicite ed esplicite funzioni societarie. È il punto di confluenza in cui il dato morale s’innesta sul dato razionale e razionalistico. La disponibilità verso il mondo secondo scienza è, nel progredire dei dubbi, evidentissima e la ricerca della grazia, inseparabile da ogni vocazione cristiana, procede parallelamente a quella di un sistema di relazioni umane. Nessun rifiuto del formicaio o del clamore. Né ottimismo né pessimismo, se non quelli (in opposizione dialettica) cui spinge qualsiasi tipo di fede o fiducia. Tutto ciò con un gusto della parola attento a guardarsi dai feticci, e con una precisa inclinazione (la parola come scambio, moneta sociale oltre che segno o mondo conchiuso) all’epigramma di scatto e felicità giovanili.
Marco Forti